Il Jobs Act ha aumentato la precarietà? Analisi delle dinamiche contrattuali nell’ultimo decennio

Premessa
La regolazione del mercato del lavoro è una tematica che coinvolge non soltanto i legislatori e gli studiosi delle discipline giuridiche, economiche e sociali, bensì è argomento di dibattito politico, di confronto spesso aspro tra le organizzazioni sindacali e datoriali. Negli ultimi venticinque anni, in Italia si sono succeduti numerosi interventi normativi: tra questi sono state tre le principali riforme che hanno avuto portata “sistemica”, ossia sono state progettate e articolate al fine di riorganizzare le dinamiche principali che regolano il funzionamento dei rapporti di lavoro, l’organizzazione dei servizi, l’equilibrio tra politiche attive e passive: il cosiddetto “Pacchetto Treu”; il Decreto Legislativo 276/2003, ispirato al Libro Bianco del quale il principale autore fu Marco Biagi; il “Jobs Act”, costituito dal complesso dei Decreti attuativi della Legge delega n. 183/2014, che sono intervenuti su numerosi ambiti del settore lavoristico.
L’aspetto di maggiore impatto del Jobs Act dal punto di vista normativo e per le conseguenze sul dibattito pubblico, è stato senz’altro l’intervento di ridefinizione delle tipologie contrattuali – tematica che costituisce l’oggetto della presente analisi – considerato quale “acceleratore” di quello che è stato da più parti considerato un progressivo “scivolamento” dal rapporto di lavoro “tipico” (il contratto di lavoro subordinato indeterminato a tempo pieno) verso altre tipologie contrattuali cosiddette “atipiche”.
Nello specifico, l’analisi proposta si concentra sull’impatto del Jobs Act sulla così detta precarizzazione dei rapporti di lavoro. Dati e grafici del presente studio sono stati ottenuti rielaborando le informazioni presenti nei Rapporti annuali sulle comunicazioni obbligatorie pubblicati negli anni 2015, 2016, 2019 e 2022 e – per quanto attiene l’andamento del Prodotto Interno Lordo e del tasso di occupazione – dalle serie storiche Istat.

Il Jobs Act
“Lavoro precario” versus “contratto a tempo indeterminato”: questa è stata la cesura fino al Decreto Legislativo n. 23 del 2015, attraverso il quale si è intervenuti al fine di rendere meno rigido il percorso di ingresso nel mercato del lavoro con il rapporto a tempo indeterminato e di renderne più agevole la diffusione. Nello specifico, il provvedimento superava le forme contrattuali maggiormente "precarizzanti" - collaborazione a progetto, associazione in partecipazione – e interveniva regolando il lavoro intermittente quello lavoro accessorio.
Il principale elemento di innovazione consisteva però nell’introduzione nel nostro ordinamento del “Contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, la cui peculiarità era costituita dalla modifica dell’articolo 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), nello specifico dalla limitazione della tutela dei lavoratori dal licenziamento senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo, prevedendo per queste due fattispecie un risarcimento monetario crescente nei primi 24 mesi, fino ad una completa “stabilizzazione”. Tale strumento deve essere però valutato nel contesto di una strategia che mirava a coniugare – in un'ottica di difesa del lavoratore e non del posto di lavoro, simile all'approccio diffuso nei principali paesi europei – una maggiore flessibilità in uscita con una più ampia tutela dei soggetti che perdono l'occupazione.

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