È trascorso quasi un anno dal
terribile febbraio 2020, dai giorni nel quali la rapida diffusione del Covid-19
ha modificato radicalmente le nostre esistenze, stravolgendo la quotidianità, i
rapporti sociali, i ritmi e le modalità di lavoro e di studio. Sono convinto
che ciascuno di noi abbia nitidi nella propria mente quei giorni e i mesi che
seguirono, le giornate forzosamente trascorse tra le mura domestiche, la ricerca
dell’equilibrio nella condivisione degli spazi con i propri famigliari, le
passeggiate con il cane (ma solo per i più fortunati!), le difficoltose call
conference con colleghi e clienti. Poi le letture, i libri divorati in quei
giorni con voracità più intensa, in parte per la maggiore disponibilità di
tempo libero, più probabilmente per allontanare la mente dai timori relativi al
dilagare della pandemia. Ricordo che lessi un libro acquistato qualche mese
prima - su una delle tematiche che maggiormente mi appassiona, la relazione tra
tecnologia e mercato del lavoro - scritto da un noto sociologo, uno di quei
professori frequentemente presenti nelle trasmissioni televisive. La sua
disamina era fortemente critica sulla diffusione dell’information and communications
technology, sull’impatto che queste avevano avuto sulle dinamiche occupazionali
e sulla qualità delle relazioni sociali, sui pericoli della diffusione delle
applicazioni e – aiuto! – dell’intelligenza artificiale. Io riflettevo su come,
nella storia dell’umanità, i progressi tecnici e tecnologici avessero portato a
una straordinaria crescita non solo economica, ma anche sociale, con l’affermazione
di nuovi settori produttivi e la nascita di opportunità professionali prima
sconosciute.
Ci fu una frase del libro che mi colpì in modo particolare, “i criteri adottati per addomesticarci alle
nuove tecnologie”, come se queste fossero degli strumenti per ridurre l’uomo
a una condizione di subalternità, e notavo come questo strideva con la realtà
che vivevo in quei giorni, nei quali la connessione attraverso il web fosse l’unica
ancora che manteneva viva la nostra vita sociale e professionale.
Milioni di bambini e ragazzi hanno trascorso mesi tra le mura domestiche,
nei quali i loro contatti con una realtà che non fosse quella famigliare sono
stati mediati dal web, che ha consentito il mantenimento del filo diretto con
amici, parenti e con la didattica. No, non penso che il futuro della scuola
possa essere questo, e so bene quanto le relazioni interpersonali siano
fondamentali nella crescita dei ragazzi, e rappresentino un valore
insostituibile. Però ricordo bene i mesi della scorsa primavera, mia figlia che
si preparava per la lezione in DAD, le risate con compagni di classe, le
interrogazioni, i lavori di gruppo svolti grazie alle applicazioni di Google,
quella condivisione difficile eppure preziosa e vitale.
No, non siamo stati addomesticati dalla nuove tecnologie, ma le abbiamo
utilizzate a nostro vantaggio in uno dei momenti storici più difficili dell’ultimo
secolo. Per usare un ossimoro, il cloud ci ha protetti dalla tempesta.
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