Reddito di cittadinanza, una scelta che esprime una visione di società

Reddito di cittadinanza si, reddito di cittadinanza no. La proposta del M5S ha tenuto banco durante tutto il periodo pre elettorale - sebbene le opportunità di un confronto pubblico che consentisse di analizzarne compiutamente contenuti e implicazioni siano state pressoché assenti - e continua ad essere oggetto di un acceso dibattito. La proposta di legge presentata al Senato dai 5 stelle nella scorsa legislatura (Disegno di Legge n. 1148) ė in realtà finalizzata all’introduzione nel nostro ordinamento di uno strumento di garanzia del raggiungimento di un reddito che consenta a tutti i nuclei famigliari di superare la “soglia di povertà”, attraverso l’integrazione del reddito esistente o l’erogazione di un reddito tout court.
La norma proposta prevede una serie di obblighi per i percettori del sussidio, innanzitutto in termini di azioni finalizzate al reinserimento lavorativo, e la perdita del sussidio stesso (o una sua riduzione) nel momento in cui il nucleo famigliare supera la soglia di povertà. Non si tratta quindi di un vero e proprio “reddito di cittadinanza”, ossia del riconoscimento di un reddito a tutti i cittadini per “diritto di nascita”, a prescindere dalla loro condizione sociale ed economica: ma ai fini della presente analisi tali differenze sono relativamente importanti.

Le dimensioni di analisi da prendere in considerazione sono due: la prima di carattere economico-finanziario, la seconda attinente ai meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro. La proposta del M5S presenta elementi di criticità da entrambi i punti di vista. Il peso dell'intervento sul bilancio pubblico è calcolato tra gli undici e quindici miliardi di euro all'anno, ma in realtà questa cifra potrebbe moltiplicarsi per via del meccanismo previsto dalla proposta di legge, che sostanzialmente incentiva il non lavoro rispetto alla ricerca dell'occupazione. Quest'ultimo aspetto attiene al secondo punto di analisi, ossia il vincolo esistente nella norma proposta dai grillini tra sussidio finanziario e meccanismi di inserimento nel mercato del lavoro: gli strumenti proposti sono senz'altro di scarsa efficacia; ad esempio:
  • si perde il diritto al sussidio se si rifiutano tre offerte di lavoro "congrue", ma si possono rifiutare tutte le offerte di lavoro che non siano "congrue", ossia non attinenti "alle propensioni, agli interessi e alle competenze" del lavoratore;
  • si possono rifiutare le offerte se il luogo di lavoro è situato nel raggio di 50 chilometri dal luogo di residenza;
  • le madri, fino al terzo anno di età dei figli, sono esentate dall’obbligo della ricerca del lavoro.
Le offerte di lavoro dovrebbero essere effettuate dai centri per l'impiego, i quali ad oggi non hanno il personale e le strutture necessari per gestire un servizio di questo tipo: è vero che la proposta del M5S prevede degli investimenti a tale fine, però in realtà la situazione è caratterizzata da elementi di complessità non affontati dal disegno di legge. Da un lato perché per rendere operativi ed efficaci i servizi previsti non è sufficiente un investimento finanziario, ma occorre una revisione organizzativa profonda e complessa. In secondo luogo poiché in base al Titolo V della Costituzione – la cui revisione fu approvata con la Legge Costituzionale n° 3 del 2001 – le Regioni hanno una competenza concorrente con lo Stato in materia di mercato di lavoro: sul piano operativo, tuttavia, le regioni esercitano una competenza pressoché esclusiva, in virtù del D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, il quale attribuisce alle stesse ampie funzioni in materia di organizzazione dei servizi per l’impiego, di collocamento e di politica attiva del lavoro. Per far funzionare i servizi per l'impiego secondo quanto previsto dalla proposta di legge del M5S, occorrerebbe di conseguenza mettere d'accordo tutte le regioni (compito assai arduo), oppure riformare la costituzione riportando la competenza relativa alle politiche del lavoro in capo allo stato (tale riforma era già stata deliberata dal parlamento, ma è stata bocciata dal referendum costituzionale del 4 dicembre 2015).

Vi è infine un terzo elemento di analisi, che potremo chiamare di natura etico-filosofica, e che alla fine corrisponde all'idea di società che ognuno di noi persegue: è giusto che lo stato garantisca un reddito a tutti coloro che non lavorano? Da tante parti si sente dire che "lo stato deve garantire una esistenza dignitosa a tutti i propri cittadini": è questo il patto sociale che abbiamo posto alla base della nostra convivenza civile? Io penso di no. Compito delle istituzioni è quello di garantire a tutti la possibilità - anche attraverso l'accesso all'istruzione - di costruirsi un percorso lavorativo, e di sostenere le persone nei momenti di passaggio da un'occupazione ad un'altra. Però le istituzioni possono "sostenere", "accompagnare" le persone nelle fasi di difficoltà, ma non garantire un reddito vita natural durante: questo non è possibile se vogliamo mantenere in vita una società liberale, nella quale il lavoro produttivo e creativo siano elementi imprescindibili dello sviluppo civile ed economico di ciascuno e della società intera. Il rischio sarebbe, tra l'altro, determinare l'esistenza di un ceto di percettori di reddito pubblico che graverebbe pesantemente sulla parte della società produttiva.

L'unica via possibile - certo complessa e difficile - è costruire strumenti, meccanismi, percorsi che consentano a tutti i cittadini l'accesso al mercato e la realizzazione - in questo modo davvero - di un'esistenza dignitosa: questo è anche l'unico modo di tenere vivo il tessuto sociale, di avere uno Stato che non sia "padre" elargitore di sussidi e alla quale siano delegate fette sempre più ampie del reddito nazionale, ma sia bensì garante delle regole che cittadini liberi scelgono di darsi.