Lavoro 4.0, occorre partire dall'analisi dalla realtà

Lanciato nei mesi scorsi, sembra che il Piano nazionale Industria 4.0 stia iniziando a dare i suoi primi frutti, attraverso la crescita degli investimenti in macchinari e nuove tecnologie, favoriti proprio dagli incentivi fiscali previsti dal suddetto piano.
Il nostro paese, sulla scia degli interventi attuati da USA, Francia e Germania, sembra non voler arrivare impreparato alla sfida della così detta “quarta rivoluzione industriale”, che nei prossimi anni cambierà profondamente le tecnologie produttive nell’industria, causando conseguentemente una mutazione profonda delle dinamiche organizzative all’interno delle aziende e degli equilibri del mercato del lavoro.
Come accaduto in passato con le precedenti rivoluzioni industriali, si sottolinea da più parti come l’introduzione di tecnologie più efficienti ridurrà i volumi occupazionali nell’industria, causando probabilmente una crescita della disoccupazione. I dibattiti su questo argomento sono all’ordine del giorno, con un ampio ventaglio di argomentazioni: da quelle più catastrofiche (“andiamo verso la disoccupazione e la povertà di massa”), fino a quelle più ottimistiche, preannuncianti una moderna arcadia (“l’uomo si potrà liberare dal lavoro e vivere un’esistenza dedita alla vita sociale e alla speculazione”).
L’impatto sulle dinamiche occupazionali - sia in termini numerici sia dal punto di vista delle caratteristiche della composizione degli occupati e delle persone in cerca di occupazione – dipenderà da due fattori chiave:
  • da quali saranno le proporzioni, le modalità e le tempistiche con cui avverrà la trasformazione nel sistema produttivo industriale: la riduzione di personale addetto alla produzione attraverso macchinari potrà essere in parte recuperato attraverso l’inserimento di lavoratori dotati di competenze più complesse, principalmente in ambito digitale;
  • dalla capacità di altri settori economici che hanno margini di crescita (assistenza anziani, formazione, recupero ambientale, ecc.) di sopperire alla probabile riduzione di occupati nell’industria.

Conseguentemente a quanto sopra descritto, è necessario – come sta già avvenendo in materia di incentivi fiscali per l’acquisto di nuovi macchinari – intervenire anche nell’ambito del mercato del lavoro: in parte tali misure sono già previste, nel contesto di quella che è stato definita la "seconda gamba" del Piano nazionale Industria 4.0, ossia il “Lavoro 4.0”. Cosa prevede il piano del governo? Si va dalle ipotesi di incentivi fiscali e contributivi per favorire l’occupazione giovanile (quindi i soggetti che dovrebbero avere maggiori competenze tecnologiche), fino agli interventi che sono già previsti dal Piano nazionale Industria 4.0: da quelli di più altro livello (“Digital Innovation Hub” e i “Competence Center I4.0”) fino alle direttrici delle iniziative a più ampio raggio: dalla formazione del pensiero computazionale nella scuola primaria ai laboratori territoriali scuola-impresa, fino alla specializzazione di corsi universitari e master dedicati. Sono proprio queste ultime categorie di interventi che necessitano di progettazione di qualità (che coinvolga davvero tutti i soggetti in campo) e di investimenti adeguati. 

Occorre però partire dall'analisi della realtà attuale, e dai limiti della stessa, senza voli pindarici: questo significa che senza la capacità di affrontare i limiti cronici del nostro sistema formativo e del mercato del lavoro, non sarà possibile raggiungere gli obiettivi indicati dal governo. Non sarà possibile nessun successo dei piani per il “Lavoro 4.0” se non saranno realizzate modalità efficaci di alternanza scuola lavoro, prevedendo in tale contesto anche gli interventi di aggiornamento degli insegnanti: spesso l’inadeguatezza delle competenze di questi ultimi in ambito tecnologico è un freno alla crescita formativa degli studenti. Un altro aspetto critico riguarda l’accesso alla formazione universitaria: nel panorama europeo abbiamo un costo medio tra i più alti, tra i mille e i tremila euro. Per fare dei paragoni, in Germania, Spagna e Francia la media è inferiore ai mille euro, nei paesi scandinavi l’istruzione universitaria è gratuita. Considerato che nel nostro paese vi è una carenza di laureati nelle discipline informatiche, probabilmente non sarebbe una idea peregrina pensare ad una forte riduzione delle tasse universitarie per tali classi di laurea. Ancora: abbiamo la più alta percentuale di Neet a livello europeo, ragazzi che non sono inseriti nel mondo del lavoro e che non seguono alcun percorso di formazione e istruzione. Si tratta però della generazione dei "nativi digitali", ragazze e ragazze che hanno una naturale abitudine a imparare rapidamente l'uso delle nuove tecnologie: è possibile prevedere interventi mirati per questa categoria?

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