Perché dietro la visione sul Reddito di cittadinanza c’è un’idea di società

Successful companies consistently focus on why they exist, not how they operate”. Questo moto, utilizzato da una delle maggiori IT company del mondo, rappresenta un principio, una modalità di azione che dovrebbe guidare, o perlomeno interrogare, anche le scelte riguardanti le policies pubbliche, in modo particolare quelle decisioni che hanno un impatto rilevante sulle dinamiche sociali, sullo sviluppo economico, sulle libertà individuali e collettive. Le riforme che modificano in maniera considerevole il funzionamento del mercato del lavoro hanno per loro natura tale forza impattante: in questa ottica, le modifiche proposte dal Governo Meloni alla normativa in vigore sul Reddito di cittadinanza, anche a causa delle ripercussioni dirette sul livello di reddito di una cospicua parte della popolazione, generano un dibattito acceso sul piano politico e nel mondo accademico. Stiamo vivendo una fase di profonde e rapide trasformazioni tecnologiche, le quale stanno incidendo sulle potenzialità produttive, sugli equilibri economici, e la forza rimodellatrice di questi processi si accrescerà in misura esponenziale nei prossimi anni, con una capillarità capace di determinare mutamenti nelle relazioni sociali e probabilmente nuove dinamiche antropologiche.
La tematica del sostegno economico dello Stato ai cittadini privi di un’occupazione e di un reddito investe differenti aspetti di carattere economico e culturale, fino a disegnare l’approccio con il quale si devono affrontare i cambiamenti indotti dalle trasformazioni tecnologiche sulle dinamiche occupazionali e a tracciare un’idea complessiva di società. Sono differenti i piani di analisi da tenere in considerazione.

Reddito di cittadinanza e politiche del lavoro

Un primo piano è quello delle politiche del lavoro: il Reddito di cittadinanza, o qualsiasi altra forma “passiva” di intervento a sostegno economico dei disoccupati e degli inoccupati, necessitano di essere affiancati da politiche attive efficaci e articolate. Queste ultime necessitano di tre livelli di regolazione e intervento. Il primo, riguardante la condizioni da applicare a tutti i percettori, principalmente la sottoscrizione di un patto d’azione tra i servizi per l’impiego e il lavoratore, che dovrebbe comprendere da un lato comportamenti proattivi da parte di quest’ultimo, finalizzati alla ricerca di una nuova occupazione, dall’altro la previsione di quelle situazioni che comportano la perdita del diritto al sussidio (rifiuto di una proposta di lavoro, violazione di altre condizioni previste dal patto). Il secondo livello è riferito alle condizioni delle differenti categorie di lavoratori, articolate in base a due dimensioni: differenti situazioni di svantaggio (disabili, over 45, under 25, disoccupati di lunga durata) e condizioni familiari (persone a carico o meno). Tali elementi dovrebbero determinare le principali linee di intervento, di natura formativa e d’istruzione, nonché la dimensione e la durata del sussidio economico: è evidente la necessità di un sostegno al reddito più consistente e di maggiore durata (seppure con un limite temporale predefinito) per i nuclei famigliari, mentre per i soggetti più giovani tale strumento dovrebbe prevalentemente essere riconvertito in contributi alla formazione e all’istruzione. Per tutti i soggetti non dovrebbe essere considerato un tabù, anche come ultima ratio, l’introduzione di un sostegno alla mobilità territoriale. L’ultimo livello attiene alle specifiche caratteristiche individuali del lavoratore, e dovrebbe essere finalizzato alla determinazione accurata del un potenziale di occupabilità del soggetto, nonché all’elaborazione delle misure specifiche finalizzate all’incremento di tale potenziale.

Reddito di cittadinanza e lotta alla povertà

Un secondo piano di analisi attiene all’utilizzo del Reddito di cittadinanza come strumento per il contrasto della povertà: in tale contesto, sono due gli elementi principali si valutazione. Il primo riguarda il ritardo di sviluppo di ampie aree del Mezzogiorno, nel quale l’erogazione indiscriminata del sussidio rischia di divenire una mera misura assistenzialistica senza limiti di tempo. In tale contesto, la soluzione non può non essere ricercata per un verso nell’implementazione di politiche economiche adeguate – tematica ampio e sfidante, ma non argomento di questo articolo – e per altro verso negli interventi di politica attiva del lavoro sopra richiamati e nel raggiungimento di elevati standard quantitativi e qualitativi dei percorsi di istruzione e di formazione. Nonostante un’opinione contraria ampiamente diffusa, il circuito virtuoso di questi tre elementi – politiche attive, istruzione e formazione – può comporre un puzzle in grado di dare un contributo rilevante alla crescita economica: lavoratori con elevate skills possono spingere sull’acceleratore della capacità produttiva delle aziende, in particolare nell’ambito delle nuove tecnologie. Il secondo elemento riguarda quei soggetti che sono “inabili” al lavoro e privi di mezzi di sostentamento: in tale caso sarebbe, da un lato, necessaria una distinzione netta tra le tipologie di sussidio, i percorsi di accesso e i soggetti responsabili: con riferimento a questi ultimi, per i lavoratori dovrebbero essere i servizi per l’impiego, per gli inabili al lavoro i servizi sociali; d’altro lato, occorre chiarire e limitare il concetto di “inabile al lavoro”, richiamando l’attenzione sul fatto che nel nostro paese esiste una normativa ben definita (magari da migliorare nella sua efficacia) per l’inserimento lavorativo dei disabili (Legge n. 68/1999), e una regolazione della sicurezza nei luoghi di lavoro che consente e tutela l’attività lavorativa di soggetti con differenti condizioni di salute. Esistono innumerevoli esempi positivi, in tante realtà produttive – soprattutto nelle regioni settentrionali – nel quale persone con disabilità fisiche, psichiche, con malattie gravi e invalidanti (a iniziare dai malati oncologici) danno il loro valido contributo al reddito famigliare
e alla crescita del paese.

Reddito di cittadinanza e sviluppo tecnologico

Il terzo piano attiene alla relazione tra sviluppo tecnologico e valore del lavoro, riguarda il presente ma ipoteca il futuro della nostra società. In tutte le fasi di trasformazione profonda dello scenario produttivo – nelle due rivoluzioni industriali, con lo sviluppo del terziario, fino all’affermazione dell’ICT – è stata presente in taluni ambienti culturali la convinzione, o forse l’illusione, di una progressiva “liberazione” dell’uomo dal lavoro, o perlomeno del superamento del lavoro manuale. Tale visione sta guadagnando terreno anche in questo momento storico, nel quale la rapida diffusione dell’Intelligenza Artificiale (AI) e delle tecnologie che ne rendono possibile l’efficace utilizzo – Machine Learning, Internet of Things, Cloud computing – sembrano dispiegare un nuovo paradigma produttivo nel quale il ruolo dell’uomo sarebbe marginale: i computer possono pensare, fare scelte razionali in tempi più rapidi degli umani, accedere in tempo reale ad una enorme mole di fonti, apprendere in modo illimitato. Tale scenario è utilizzato dai sostenitori del “reddito minimo universale” per rivendicare il diritto ad un salario di base per tutti i cittadini, non vincolato ad alcuna prestazione lavorativa: la sostenibilità economica di tale proposta è alquanto discutibile, necessariamente si creerebbero due ceti, uno produttivo – che lavora, paga le tasse – e uno improduttivo, con dinamiche sociali difficilmente governabili. Però uno scenario di questo tipo rimanda anche e soprattutto a implicazioni sul futuro della nostra società, contrapponendo due visioni: una che considera il lavoro esclusivamente come un mezzo di sostentamento, l’altra che vede il lavoro come un percorso che è inestricabilmente connesso allo sviluppo della personalità dell’individuo, quale possibilità data ad ogni uomo – certo, con ruoli e pesi differenti – di contribuire allo sviluppo della società e, in un certo modo, di plasmarla. L’uomo può rinunciare al lavoro senza snaturare se stesso? L’AI apre scenari densi di potenzialità positive, ma questo può tramutarsi in una marginalizzazione del ruolo umano? Gli strumenti specifici dell’AI – Big Data, Data Mining, Machine Learning – hanno una straordinaria forza e velocità computazionale: una capacità di apprendere, individuare correlazioni, predire gli avvenimenti e i comportamenti, che è irraggiungibile per gli esseri umani. Però l’Intelligenza Artificiale non è in grado di generare conoscenza, di concettualizzare: se non si comprende a fondo tale distinzione, come il pensiero umano sia molto di più del calcolo e della risoluzione dei problemi, c’è il rischio di percorrere una strada sbagliata, ossia anziché affiancare l’Intelligenza Artificiale a quella umana, giungere a sostituire la prima alla seconda, o spingere verso l’omologazione del pensiero umano a quello digitale. Il filosofo sudcoreano Byung-Chul, nel suo recente libro intitolato “Le non cose”, richiama la necessità di distinguere nettamente la capacità di crescita esponenziale dell’AI, che possiamo definire “capacità intellettiva di natura computazionale”, dall’intelligenza umana, connessa anche ad aspetti emotivi e esperienziali propri di ciascun individuo, fino al “phatos” quale scintilla generatrice del pensiero: la tecnologia digitale è necessariamente orientata alla semplificazione, perdendo – rispetto all’analogo, ossia al “corrispondente” – forza connotativa. Byung-Chul Han traccia quello che ritiene un limite invalicabile allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e della capacità di quest’ultima di avere natura “sfidante” rispetto all’intelligenza umana: “A partire dal suo livello più profondo, il pensiero è un processo decisamente analogico. (…) L’aspetto emotivo è essenziale per il pensiero umano”.


Libertà, reddito e sviluppo economico

Infine, il quarto piano di analisi, strettamente connesso il precedente, è quello della “consistenza” della società civile, e di conseguenza della robustezza della democrazia liberale: l’interrogativo che dobbiamo porci è se una a quest’ultima giovi che una parte consistente della popolazione tragga sostentamento esclusivamente o prevalentemente da un sussidio pubblico, oppure se la forza dello stato di diritto, le libertà civili e i diritti sociali non siano indissolubilmente legati alla natura dinamica, produttiva della società, non dimenticando come nei secoli passati – dal Rinascimento alla Rivoluzione francese, dalla Rivoluzione industriale al secondo dopoguerra – l’affermazione di tali principi abbia sempre viaggiato sull’onda impetuosa dello sviluppo economico e culturale. A tale proposito, è significativo richiamare la forza evocativa dello scenario ipotizzato da Byung-Chul: “Col moto panem et circenses Giovenale descrive una società romana in cui non era più possibile alcun agire politico. Gli uomini venivano sedati a colpi di cibo gratuito e giochi spettacolari. Il reddito minimo universale e i videogiochi sarebbero la versione moderna del panem et circenses”.

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