Superamento dell'assegno di ricollocazione, che fine faranno le politiche attive del lavoro?
Il Decreto Legge n. 4 del 28 gennaio 2019, che ha istituito il reddito di cittadinanza, ha modificato la regolazione di uno dei principali meccanismi di politica attiva del lavoro introdotti negli ultimi anni, l'assegno di ricollocazione. Tale strumento, in precedenza utilizzabile da tutti i disoccupati da almeno 4 mesi, sarà attivabile esclusivamente dai lavoratori in CIGS coinvolti nelle crisi aziendali e dai beneficiari del reddito di cittadinanza.
Siamo difronte ad un netto passo indietro sul terreno delle politiche attive del lavoro, sebbene l'assegno di ricollocazione abbia mostrato notevoli limiti di applicazione: dopo un avvio sperimentale difficile, negli ultimi mesi del 2018 circa il 10% dei disoccupati avevo richiesto l'attivazione della dote.
Quali sono le cause di tali difficoltà? Innanzitutto occorre riflettere su un meccanismo lento e farraginoso: il percorso di ricollocazione del lavoratore aveva inizio attraverso la Did (dichiarazione di immediata disponibilità), che i disoccupati dovevano rilasciare direttamente sul portale Anpal. Dopo avere compilato tale dichiarazione, i lavoratori – purché disoccupati da oltre quattro mesi e percettori della Nuova assicurazione sociale per l'impiego (Naspi) – potevano richiedere l’assegno di ricollocazione attraverso lo stesso portale, per poi essere avviati presso i servizi pubblici o privati i quali dovevano gestire il percorso di reinserimento del lavoratore, al termine del quale – e solo in caso di successo – ricevevano il pagamento dell’assegno, commisurato alla tipologia di contratto con il quale il soggetto è stato assunto.
Non soltanto la mancata realizzazione del “sistema informativo unitario delle politiche del lavoro” ha reso la procedura lenta e complicata, obbligando i disoccupati a recarsi ancora fisicamente presso i Cpi per l’accertamento del loro status, ma anche la fase successiva, nella quale il lavoratore doveva scegliere presso quale soggetto “spendere” la propria dote (centro per l’impiego o agenzia per il lavoro) non è stata regolata adeguatamente, ad esempio prevedendo percorsi standardizzati per i lavoratori e adeguati livelli di servizio ai quali CpI e ApL dovrebbero attenersi.
Riassumendo, il disoccupato che intendeva attivare l’assegno di ricollocazione rischiava di doversi rivolgere a tre soggetti (Anpal, CpI, ApL), per un una procedura che in parte avveniva online, in parte attraverso la relazione con gli operatori dei servizi per il lavoro pubblici e privati. Resta di difficile comprensione la scelta di affidare la profilazione del lavoratore esclusivamente ai centri per l’impiego: tale attività poteva essere svolta anche dalle ApL, o addirittura realizzata interamente online.
L’insuccesso dell’assegno di ricollocazione è però da ricercare anche nelle modalità con cui tale strumento è stato delineato dal legislatore, in particolare con riferimento al “meccanismo di condizionalità”, ossia al legame previsto dalla norma tra l’erogazione delle prestazioni di sostegno al reddito e il Patto di servizio personalizzato che ciascun lavoratore doveva stipulare con i servizi per l’impiego. In altre parole, i lavoratori che intendevano richiedere l’indennità disoccupazione (NASPI o ASDI) dovevano prima sottoscrivere un accordo personalizzato, e se non rispettano i contenuti dello stesso, tra i quali il vincolo di accettazione delle offerte di lavoro “congrue”, rischiano di decadere dalla titolarità del sussidio.
Tale meccanismo lasciava però ampia libertà al lavoratore disoccupato in merito all’assegno di ricollocazione, rispetto al quale aveva la facoltà di decidere se aderire o meno, ma solo una volta aderito allo stesso scattava il vincolo del percorso definito con gli operatori dei servizi per il lavoro, pena la perdita della dote: questa dinamica incentivava il lavoratore a tenersi l’indennità di disoccupazione e a non attivarsi per l’assegno, creando una sorta di cortocircuito.
Il disegno complessivo di rafforzamento delle politiche del lavoro previsto dal Jobs Act, – dall’assegno di ricollocazione al meccanismo dell’offerta congrua, fino alla previsione dei livelli essenziali di prestazione da garantire su tutto il territorio nazionale – pur indicando una giusta direzione di marcia, è rimasto privo degli strumenti che avrebbero dovuto darne pienamente corso.
Tali strumenti non sono stati definiti nemmeno con il Decreto Legge n. 4 del 28 gennaio 2019: anzi, il percorso intrapreso dal legislatore peggiora la situazione preesistente, essendo nettamente sbilanciato sul versante delle politiche di sostegno al reddito e non mostrando alcuna progettualità sul versante delle politiche attive del lavoro. La scelta di limitare fortemente la platea di destinatari dell'assegno di ricollocazione è sbagliata: tale strumento, uno dei pochi destinato al rapido reinserimento del lavoratore nel mercato del lavoro, sarebbe dovuto essere rafforzato e reso obbligatorio per tutti i disoccupati.