Disoccupazione e differenze territoriali: la soluzione dei buoni mobilità
Nonostante un tasso di disoccupazione dell’11% – che tra i giovani sfiora il 32% – e un tasso di occupazione tra i più bassi in Europa, in Italia non mancano le aziende che non riescono a trovare le professionalità di cui hanno bisogno. Non si tratta soltanto dei cosi detti “lavori che gli italiani non vogliono più fare”, ossia delle attività più usuranti (agricoltura, assistenza agli anziani, ecc.), ma tale fenomeno riguarda anche professioni quali gli ingegneri informatici, i tecnici elettronici e i consulenti per la gestione aziendale.
Nonostante la crescita economica proceda ancora a passo lento, sono numerose le imprese italiane che faticano a trovare personale qualificato: circa il 10% delle figure ricercate sono classificate “di difficile reperimento”, ossia la ricerca di tali tipologie di lavoratori può richiedere più di tre mesi. Quali sono le ragioni di questa situazione? I motivi principali sono la mancanza di competenze adeguate e di giovani con i titoli di studio necessari a soddisfare le richieste del mercato del lavoro: tali aspetti divengono più evidenti e gravi se guardiamo al settore ICT, ossia a l’ambito nel quale maggiori sono le previsioni di crescita nei prossimi anni, e nel quale sarebbe possibile innescare un circuito virtuoso di crescita occupazionale.
Tale “paradosso digitale” ha però nel nostro paese un risvolto peculiare, che rimanda alla cronica differenza di sviluppo economico e di livelli occupazionali tra il sud e il nord del paese: ci sono ancora decine di migliaia di giovani laureati nel meridione che potrebbero trovare lavoro nelle aziende del nord, e ci sono ancora tantissime aziende – come detto sopra – che faticano a trovare le professionalità adeguate. Gli elementi da considerare sono differenti; aldilà degli aspetti di carattere economico, limitando l’analisi al funzionamento del mercato del lavoro sono tre i nodi critici che determinano tale situazione: la mancanza di un adeguato meccanismo di transizione tra università e mondo del lavoro, l’incapacità dei servizi per il lavoro di adeguare le competenze professionali dei lavoratori alle esigenze del mercato del lavoro (anche attraverso una logica programmatoria) e la mancanza di adeguati incentivi alla mobilità territoriale.
No, non si tratta di riproporre la vecchia logica dell’emigrazione dal sud il nord del paese. Innanzitutto perché questa non si è mai interrotta (anzi, ha avuto una ripresa negli anni novanta). In secondo luogo perché è sempre più evidente – e dovrebbe indurre a riflessione – come i giovani meridionali scelgano di emigrare all’estero, considerando tale opzione come l’unica via ad un’esistenza lavorativa soddisfacente. Si tratta di mettere in condizione le aziende italiane di trovare le professionalità adeguate, e ai giovani del sud di accedere alle opportunità lavorative che l’Italia ancora riesce a mettere a disposizione, in un paese che è profondamente differente da quello delle ondate migratorie degli anni sessanta: le differenze culturali tra le diverse regioni sono certamente minori, e forse occorrerebbe fare un “salto di paradigma” che superi lo stesso concetto di emigrazione a favore di una più moderna concezione della mobilità. D’altra parte è ciò che fanno i cittadini degli USA da generazioni: oggi circa il 33% degli americani risiede in uno stato differente da quello della nascita, risultato figlio soprattutto della propensione a cogliere le opportunità lavorative anche lontano dalla propria città, dalla famiglia e dagli amici.
La mobilità ha senz’altro ripercussioni positive sul mercato del lavoro, non solo per chi sceglie di spostarsi, ma anche per chi resta nel luogo di origine e si trova ad avere meno concorrenza. La logica di intervento non deve certo essere quella di incentivare la mobilità a prescindere, ma quella di consentire ai lavoratori che fanno liberamente tale scelta di avere il supporto economico adeguato per fare tale percorso, in particolare nel periodo iniziale della ricerca dell’occupazione nel quale i costi del trasferimento non sono ancora supportati da un adeguato reddito.
Come? Un’idea potrebbe essere quella di una specifica modalità di sussidio per l’inserimento lavorativo (i “buoni mobilità”), o di un’integrazione dell’indennità di disoccupazione esistente. Tale strumento potrebbe essere intanto essere realizzato e sperimentato per i giovani laureati, ossia per quei lavoratori che sono più facilmente propensi alla mobilità e sono maggiormente richiesti dalle aziende.